Sognando imprese inutili nella miseria irreale. La hyubris nel cinema visionario di Werner Herzog

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Si può correttamente affermare che il cinema di Herzog descriva e analizzi la natura umana con tanta maestosità poetica da rendere i personaggi e le loro gesta mitizzati e mitizzanti. La creatività narrativa del regista bavarese è abile nel trascinare lo spettatore in uno spazio dove mito e realtà si fondono tramandando suggestioni artistiche e vitali.

Il cinema per Herzog è una concreta e palpabile utopia ove la miseria umana si veste del suo abito migliore raccontando i suoi più profondi drammi, le sue più tormentate paure e le sue più effimere gioie. Ma soprattutto l’arte di Herzog sta nel demistificare la realtà a favore di una concreta credenza nel sogno, nell’illusione. “Circondata dal sogno è la nostra breve vita” afferma Shakespeare; una verità ineludibile da cui tuttavia il pragmatico uomo di discendenza illuminista è fuggito, rifugiandosi nel più confortevole ma non sicuro mondo materiale. La tendenza al grande scopo, oltre i confini fisici e morali, è un leitmotiv nel cinema del baverese, ma in questo spazio è opportuno evidenziare l’emblema herzoghiano per eccellenza: il conquistatore delle cose inutile Brian Sweeny Fitzgerald, più comunemente conosciuto con il nome di Filtzcarraldo.

Tuttavia, è altrettanto opportuno seguire cronologicamente la genesi e lo sviluppo di uno dei film più sofferti, tormentati e faticosi della storia del cinema coniugandolo inevitabilmente all’artista ma soprattutto all’uomo Herzog. Il confronto tra un regista, in quanto uomo e artista, e i suoi film non è mai una questione ovvia o prevedibile; in particolar modo quella tra Herzog e la sua filmografia.

Prima della creazione e la distribuzione di Filtzcarraldo, allo spettatore attento e cultore del cinema del regista tedesco non sarà sfuggita la specularità tematica ed estetica al film/impresa di un altro suo capolavoro ambientato in Amazzonia: Aguirre furore di Dio. La ribellione a un potere conformista, l’intraprendenza, la forza, la tracotanza, l’illusione e, infine, la delusione, il dolore e una solitudine lacerante, nonostante l’orgoglio disperato, vengono riassorbite o rovesciate semanticamente per dimostrare che il sogno è parte integrante della vita, e viceversa.

La nave sopra l’albero vista soltanto dal conquistadores Aguirre è un’epifania irrealizzata, emblema del misero fallimento umano nella sfida contro la realtà, ma è anche il segno del paradosso, letteralmente inteso come contro (parà) opinione (dòxa), uno sforzo intellettivo e oculare non comune. Il film sulla spedizione verso Eldorado è dunque un conto in sospeso per il cineasta tedesco. Difatti, qualche anno dopo un’altra epifania – quella del battello a vapore che scala la montagna accompagnata dalla soave musica di Enrico Caruso – lo trascina nuovamente, inquieto e sognante,  verso la foresta vergine, inquietante e impercettibile come i peggiori incubi. La missione artistica di un regista forse non si era mai fusa in maniera così intensa con la missione esistenziale di un uomo inquieto ma caparbio come nella produzione di questo film.

Il plot più o meno lo conosciamo tutti, grazie anche al grande successo ottenuto a Cannes:Brian Fitzgerald, detto Filtzacarraldo in quanto gli indigeni non sanno pronunciare il suo vero nome, è un sognatore, un visionario che ha intensamente immaginato di far coadiuvare la forza latente ma devastante della natura amazzonica con la forza estetica e contemplativa della musica lirica al fine di dimostrare la loro vera ma inafferrabile essenza, nonostante l’ossimorica unione. “L’opera e la foresta sono assiomi del sentimento” scrive Herzog nel suo diario di bordo. Ma i suoi sogni di costruire un teatro d’opera nel bel mezzo della foresta vergine si imbattono contro i cinici scherni dell’uomo materiale e razionale. Così è costretto a cambiare strategia per imbattersi in quel sogno che possa appagare più il suo stato d’animo che il suo portafogli: spinto più dall’ideale che dal reale vantaggio suggerito dalla fidanzata Molly (interpretata dall’incantevole Claudia Cardinale), decide di intraprendere un folle viaggio in nave, scalando con quest’ultima la montagna, e raggiungere il punto in cui si congiungono i fiumi, dove nessuno aveva mai osato metter piede. “Anche la lotta verso la cima basta riempire il cuore di un uomo” afferma Albert Camus.

La citazione del filosofo francese non è casuale, né una coincidenza: “Sul libro francese c’era un’immagine di Camus impegnato in una conversazione filosofica con un saggio, leggermente più vecchio di lui, sulle giustificazioni dell’esistenza dell’uomo sulla terra […] ed era bello vedere un filosofo parlare con tanta spontaneità”. riporta tra le sue memorie Herzog. Sulle orme di chi ha voluto trovare una sintesi filosofica al pensiero esistenzialista, il cineasta tedesco rappresenta la sua opera come un sogno da realizzare, una cima da raggiungere, senza i quali è impossibile vivere. Sisifo/Herzog proietta le sue intenzioni, i suoi stati d’animo all’attore Kinski, che – come ci ricorda Camus – mimo del caduco si esercita e si perfezione solo all’apparenza. Infatti, nonostante il regista pensasse che Kinski fosse l’unico in grado di interpretare questo ruolo oltre i suoi memorabili e folli sfoghi e i suoi eccentrici narcisismi, nonostante la riconosciuta e acclamata qualità artistica del film, il giudizio critico-estetico di Filtcarraldo resta parziale, incompleto. Per tentare, dunque, di acquisire una conoscenza olistica occorre esaminare le pagine inquiete del diario di bordo, o meglio ciò che lo stesso Herzog ha definito “un paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla”. Solo così, forse, potremmo conoscere e assimilare il vero concetto del viaggio di Herzog/Filtzcarraldo.

In quelle pagine di diario riluttanti alla cronologia, alla datità, nonostante vengano specificati sempre data e luogo, trapela un alone oscuro di inquietudine irrequieta che tende a una paradossale verità in un mondo paradossalmente ragionevole. Catapultato in una dimensione aleatoria rispetto a una realtà occidentale apparentemente confortevole ed espiatoria, Herzog si ritrova a scrutare, terrorizzato ma fatalmente attratto, le divergenze culturali e paesaggistiche del Sud America, da Iquitos a Manaus, che lo conducono nei meandri più oscuri del suo inconscio. I problemi di produzione, di finanziamenti, allora, diventano secondari di fronte alla suggestiva idea di un uomo di sfidare una natura non maligna, ma tenacemente e nefastamente forte, che “si arrende soltanto dopo aver vinto la battaglia”.

In tre anni di giungla, ove la parola è afasica e il canto degli uccelli un grido,  con profonda difficoltà e instabile stato d’animo, il regista bavarese ha cercato di captare e successivamente descrivere la misteriosa natura umana al fine di comprendere il ruolo della sua esistenza nella realtà. Oltre le convenzioni.

Ne è conseguita una catabasi, un nietzschiano innalzamento dell’abisso individuale alla suprema altezza, più che una tracotanza prometeica finalizzata all’esaltazione egoica grazie alla contemplazione e alla ricerca della verità, la quale è più importante della verità in sé.

Dalla lettura del libro di Herzog, dunque, si arguisce che solo il cineasta tedesco abbia capito la folle impresa: non un titanismo irrazionale, ma una titanica presa di coscienza della nefanda realtà. ” Non c’era dolore né gioia, non c’era agitazione né rilassamento, non c’era felicità né un suono, non c’era nemmeno un sospiro di sollievo. Era soltanto il fatto di capire una grande inutilità. […]Oggi, mercoledì 4 novembre 1981, poco dopo mezzogiorno, siamo riusciti a portare la nave dal Rio Camisea al Rio Urubamba, facendole valicare la montagna. Tutto quello che c’è da dire è questo: io vi ho preso parte”. La gloria – come scrive Leopardi – è un illusione troppo splendida e un nome troppo alto affinché possa durare dopo la strage delle illusioni. Il vero eroismo sta nello spingersi oltre non per la gloria, ma per la ricerca di una nostra soggettiva verità o semplicemente dell’inutile ricerca di tale.

Accettiamo forse la realtà poiché intuiamo che nulla sia reale è il motto di Borges ne L’Aleph, ma sembra essere adottato da Herzog a favore di un’esaltazione della soggettività e di un’eroica esperienza fine al soggetto. Il concetto di hyubris con Herzog muta per diventare intangibile, ma non esoterico, la cui essenza va cercata all’interno.

La traccia di questa nuova tracotanza è segnata in Filtzcarraldo negli occhi di Kinski davanti Don Aquilino, a cui non può esprimere le proprie gesta, la propria avventura se non attraverso lo sguardo. Il resto è afasia, silenzio, sofferenza, gaia contemplazione. Solo l’opera, solo il lirismo musicale di Vincenzo Bellini, dona al film quella comunicabilità catartica in grado di penetrare l’interiorità dello spettatore.

 

 

 

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